Silenzio. Il rumore di sottofondo di questo grigiore urbano che dilaga come la rassegnazione sui volti della gente si interrompe. Silenzio.
Nessun cantiere stradale, nessun centro commerciale, nessun clacson. Solamente il pulsare dei tamburi al ritmo di una danza tribale che fa sobbalzare il cuore, e il suono cupo, breve, di una breccia aperta nel muro di questa quotidianità assordante.
Una breccia aperta nei muri della società fisica che disciplinano, nelle strade che portano al lavoro, all'università, al super mercato, ma mai ad incontrarti, mai a costruire i tuoi desideri.
Questo Moloch, infernale prigione incomprensibile, il cui sangue è denaro nero che scorre. Questa sfinge di cemento e alluminio che si nutre del desiderio collettivo.
Questa fabbrica della paura in cui il futuro è un grosso filo spinato su cui stare in equilibrio, in cui la vita intera è messa a profitto.
Questa normalità surreale e grottesca, in cui i fratelli e le sorelle in fuga dalle guerre del Maghreb sono considerati eroi quando si trovano dall'altra parte del Mediterraneo, e pericolosi criminali quando approdano sulle nostre coste.
In cui da 15 anni a questa parte non c'è una sola guerra, spacciata per missione di pace, che abbia portato democrazia nei Paesi in cui si combatte, e non una che sia finita.
In cui il settore militare è l'unico che non conosce la parola "crisi".
Questa fabbrica della precarietà in cui il tasso di disoccupazione giovanile è al 28,1 % e il tasso di inattivi tra i 15 e i 64 anni è al 38%. In cui lo sfruttamento della produttività del tessuto sociale viene agito attraverso molteplici forme già all'interno delle università e delle scuole: lavoro nero, stages e tirocini obbligatori e non retribuiti, aumento tasse universitarie e dequalificazione dei saperi, erosione del welfare e dei diritti.
In cui il rimedio al senso di malessere si fa ossessione securitaria, tanto per trovare un capro espiatorio al senso di soffocamento dato dal dover ridurre la propria esistenza ad una sterile sopravvivenza.
In cui il bombardamento pubblicitario crea la convinzione che la conquista della felicità si raggiunga attraverso il consumo.
In cui siamo tutti partecipanti inconsapevoli al poker dei desideri omologati e dei sogni liquefatti.
In cui la vita, l'unica di cui si dispone, si declina nel nome di una "maggiore produttività, efficienza, aziendalizzazione", seguendo una ricetta a base di selezione, competizione sfrenata, quantificazione dei saperi, robuste iniezioni di mercato.
In cui la possibilità di scelta è solo una grande chimera. In cui il ricatto e il saccheggio sono le armi con cui viene esercitata una continua violenza sulle nostre vite.
In cui il pubblico si fa braccio armato del privato. E la complicità fra proprietà privata e Stato trova la sua vera sostanza nella rapina delle risorse comuni e nella logica dello sfruttamento.
In cui a dieci anni da Genova la critica globale si ripropone ancora più forte.
Le rivolte euromediterranee di intere generazioni di non garantiti, precari, studenti, hanno aperto in questi mesi un nuovo spazio costituente dentro e contro la crisi. Un processo che parte dalla necessità di ridefinire la redistribuzione della ricchezza, nuove garanzie, nuove libertà.
Basaglia scriveva “(Il folle) è colui che scuote dalle fondamenta la norma”, dove “l’abnorme continua ad essere riferito all’infrazione di uno schema di valori che viene accettato come naturale, che viene imposto”.
E allora noi riconosciamo la nostra follia, rifiutando l'idea di questa normalità assurda.
Vogliamo essere forza centrifuga che scuote una prospettiva spacciata per assoluta, e che, invece, non è altro che relativa ad un sistema di potere verticistico che determina ciò che è normale: le relazioni, la disciplina, la socialità, il rapporto con l'ambiente...
Vogliamo essere processo costituente che apra la prospettiva concreta di un mondo diverso, in cui si faccia avanti l'idea di un comune sociale e politico, che superi la politica della delega.
Vogliamo scagliare una pietra contro la normalità spersonalizzante e alienante di questo macchinario diabolico in cui siamo ricondotti al ruolo di ingranaggi inerti, che, in modo sincrono e inconsapevole, collaborano all'autosostentamento di un sistema criminoso.
Il 6 maggio è stato sciopero generale. L'abbiamo detto e ripetuto: si scrive sciopero, si urla democrazia!
Un nuovo punto zero da cui ripartire ricchi delle lotte del passato, ma soprattutto forti dell'apertura di un varco per il nostro presente e il nostro futuro.
Un'occasione per far emergere le istanze sostenute da tutte quelle fasce colpite da decenni di politiche di asservimento alle logiche del profitto e della mercificazione. Politiche, queste, che hanno aperto uno squarcio nel tessuto sociale, impiantando in esso il seme della diguguaglianza, della frammentazione e dell'isolamento.
Il 6 Maggio ha rappresentato la radicalizzazione di una lotta biopolitica. La stessa che ha unito durante l'autunno studenti, precari, lavoratori di Mirafiori, etc.
Una lotta che ha saputo canalizzare il senso di malessere che pervade la nostra generazione, la generazione precaria, per dargli nuova forma. Perchè questo malessere, associato al senso di solitudine e rassegnazione, lentamente toglie il respiro, come una lunga apnea.
Il 6 maggio quello stesso malessere si è trasformato in vitalità, rabbia e speranza che ha irradiato le vie della città, facendo tornare a sognare una generazione che ha scelto di resistere ai licenziamenti, ai tagli, all’abbattimento dei diritti, alla devastazione ambientale ed all’impoverimento sociale e culturale del Paese.
Ci siamo riappropriati di uno spazio, lasciato in mano alla gestione mortifera dell'università, per sottrarlo alla rovina del tempo e ridargli vita, con l'obiettivo di renderlo spazio di condivisione di esperienze, confronto collettivo e sedimentazione di pratiche e prospettive per la costruzione di alternativa. Frammento di cooperazione sociale in cui i saperi circolano liberamente, con pratica non brevettabile e costitutivamente contraria a ogni copyright. In cui sia possibile sottrarsi alle forme di ricatto sociale e lavorativo, creando progetti di autorecupero che permettano di restituire alla collettività un edificio lasciato in pasto all'erosione del tempo e di autoreddito, mediante i quali la dimensione lavorativa si possa congiungere con una declinazione delle proprie aspirazioni.
Una pratica che dia un esempio concreto di declinazione della democrazia dal basso, tracciando le prime pennellate di quella che per noi rappresenta l'alternativa. In un contesto in cui il terreno di sfruttamento è diventato la vita sotto tutti i profili, il nostro progetto rappresenta uno spazio dedicato all'elaborazione di forme di sottrazione allo sfruttamento lavorativo e alla precarietà in tutte le sue forme, oltre che un'alternativa sociale ed abitativa: aule studio aperte tutto il giorno, percorsi di autoformazione, attraverso il coinvolgimento di docenti e ricercatori, laboratori artistici e culturali per promuovere una libera circolazione dei saperi.
La nostra occupazione, inoltre, vuole puntare i riflettori su decenni di speculazione edilizia che hanno ridotto i nostri territori a grosse gabbie di cemento e asfalto (pur lasciando marcire nello stato di abbandono diversi edifici secondo i dettami delle regole di mercato, dando giustificazione così ai prezzi esorbitanti di quelli utilizzabili).
Decenni di cementificazione selvaggia, in cui la gestione pubblica degli immobili , alla stregua di quella privata, si è resa complice della sottrazione messa in atto a spese della possibilità di accesso collettiva ad un'esistenza dignitosa.
Nella società del consumo fine a se stesso, in cui i cicli produttivi si esercitano in ogni momento della nostra giornata, e in cui la precarietà (lavorativa, generazionale, biologica, abitativa, culturale, ambientale...) è diventata una questione esistenziale,generiamo conflitto metropolitano inserendoci nelle crepe di questo sistema per farne esplodere le contraddizioni, strappando dalle fauci della speculazione brandelli delle nostre città, costruendo nuovi spazi di condivisione autonomi e radicalmente altri dallo Stato e dal mercato.
Rivendichiamo di essere protagonisti della nostra esistenza, svincolandoci anzitutto dal ricatto e dalle rappresaglie cui siamo soggetti che quotidianamente annaspano nel mare dell'assenza di diritti per la lotta alla sopravvivenza.
Qui e ora! Perchè il passato lo lasciamo volentieri a coloro che nel suo nome ci chiedono di sacrificare il nostro presente fatto di vita e irrinunciabili passioni.
"Questa è la nostra vita, il nostro tempo la nostra città!"
Rifiutiamo con una pratica militante attiva, di essere ridotti a meri consumatori e ricominciamo a trasformarci in soggetti pienamente in possesso della nostra identità politica.
Riappropriamoci della nostra dignità.
Trasformiamo queste fabbriche della paura in fabbriche della dignità!
Chè dalla rabbia, quando si fa collettiva, si può costruire l'alternativa.
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